Nel 2018 la presidenza dell’IRG-Rail, il network europeo dei regolatori indipendenti del settore ferroviario, andrà a Andrea Camanzi, il presidente dell’Autorità di Regolazione dei Trasporti italiana. Si tratta di un riconoscimento non da poco: l’Italia è all’avanguardia per quanto riguarda struttura, funzioni e poteri di un’autorità di regolazione indipendente, gli altri paesi (come, ad esempio, la Francia) stanno seguendo la strada e in parte fanno riferimento all’esempio italiano. Il confronto tra i diversi ambiti e i diversi paesi è sempre un esercizio molto difficile: ma va preso atto che, con un sistema di Authority come ART, Antitrust e in parte anche Anac, l’Italia si pone ai primi posti per modernità di legislazione e innovazione nei sistemi di regolazione e controllo. (Questo numero di Mobility riferisce ampimente del Rapporto ART 2017 e la relazione del presidente). Il difetto (perché ce n’è sempre uno) è che gran parte degli interventi si proiettano – perché questo prevedono le nostre leggi – nel futuro. E difatti, a parte limitati provvedimenti dell’Antitrust (l’ultimo, ad esempio, sulla Roma-Lido), sempre soggetti a complicate e defatiganti procedure tipiche del nostro bizantinismo, sul passato è quasi impossibile mettere bocca, un po’ come sui famigerati “diritti acquisiti”. Un’azienda che in qualche maniera rappresenta il passato è certamente l’Atac, la partecipata che gestisce i trasporti pubblici della Capitale, che non cessa di alimentare (ahimè, quasi sempre in negativo) le cronache dei giornali, diventando quasi l’esempio di ciò che non dovrebbe essere una impresa di trasporti. Per rimanere solo agli ultimi episodi, dopo la relazione di Mediobanca (che imputa all’azienda capitolina di detenere quasi la metà del debito che hanno tutte le aziende di trasporto in Italia), dopo lo sciopero di alcune sigle sindacali che ha paralizzato per l’ennesima volta la città e dopo la drammatica vicenda (dai contorni ancora oscuri, ma comunque gravissima) dell’incidente della donna trascinata per decine di metri sul marciapiede della stazione metro di Termini, sembra che i giornali dovranno occuparsi di nuovo dell’azienda perché sarebbero in arrivo ricchi premi e cotillons da assegnare a fine anno ai manager, probabilmente per tener fede all’immodificabile dettato contrattuale, ma certo con scarso senso dell’opportunità, considerata la situazione complessiva, aggravata dall’elenco quotidiano dei disservizi lamentati dalla cittadinanza. Di chi sono le responsabilità di questa situazione? Qui le risposte diventano come al solito difficili, anche perché abbiamo visto che non servono i continui cambi di management (oramai siamo a numeri quasi da record), non servono i cambi di amministrazione comunale e non serve neanche il ricorso a manager unanimemente riconosciuti come tra i più esperti del settore, come Bruno Rota, chiamato all’Atac dopo la sua brillante esperienza di guida dell’azienda di trasporti milanese, l’ATM. Nel complesso panorama romano (sempre difficile da interpretare e ricostruire), sembra che l’avvento di Rota stia diventando quasi un problema per l’azienda e forse anche per l’amministrazione comunale, che pure ha compiuto una scelta coraggiosa rivolgendosi al manager milanese: è un fatto che il neo direttore generale non ha ancora ricevuto alcuna delega dall’amministratore unico Manuel Fantasia e le sue idee per ristrutturare l’Atac (con alcune soluzioni che lui stesso sembra definisca “difficili ma indilazionabili”) per ora fanno parte di un dibattito tanto sotterraneo, quanto sicuramente non portato all’attenzione del pubblico. Negare che la situazione sia esplosiva è impossibile. Anche in quest’ultima vicenda di Termini, le critiche si sono concentrate non solo sull’episodio in sé, ma anche sul comportamento dell’autista, determinando reazioni quasi da “pilota automatico”, anche dal fronte sindacale. Siamo chiari: chiunque viaggia sui mezzi pubblici di Roma può constatare casi di comportamento (cellulare, musica etc.) che non risultano commendevoli (o, se si vuole, decisamente censurabili), ma le responsabilità autentiche (e gravissime) stanno in chi – in tutti questi anni – non ha investito in innovazione (dei mezzi, innanzitutto, ma anche e soprattutto dei sistemi di sicurezza), preferendo destinare tutte le risorse al personale e alla pura gestione dell’esistente. E che l’impasse derivante da una gestione tutta improntata a conquistare il consenso degli addetti di quella che – detto papale papale – è la principale “industria” di Roma (una sorta di Fiat per Torino, absit iniuria verbis…), è dimostrato anche dal fatto che c’è un accordo firmato con i sindacati confederali che riguarda la produttività del personale e che è rimasto finora in gran parte lettera morta o che serve solo per proclamare scioperi le cui ragioni sono sempre più oscure. Scioperi che a loro volta risultano uno dei grandi misteri gloriosi della tormentata vita della Capitale: i dati in questione sono custoditi meglio del segreto di Fatima, ma sembra che gli aderenti all’ultimo sciopero – che ha letteralmente cancellato non solo il servizio delle metro (mancanza cui i romani, in queste occasioni, sono ahimè abituati), ma anche quello della totalità dei bus di superficie (e questo è, anche statisticamente, abbastanza difficile) – siano stati alla fine meno del 14 per cento del totale. In pratica, se queste cifre fossero vere, vorrebbe dire che l’86 per cento degli addetti avrebbe dovuto essere al lavoro, ma nessuno è in grado di spiegare dove erano e cosa facevano. L’ultimo referendum proposto dai radicali è una soluzione? Pare che se ne stiano convincendo in molti, anche se con un ritardo (visto che i tempi stanno per scadere) che sa un po’ di ipocrisia (ma si sa che i voti son sempre voti….). Un personaggio sicuramente indipendente e famoso per il suo anticonformismo come Walter Tocci si è, invece, schierato da tempo a favore del referendum e con motivazioni ben radicate: la gara per l’affidamento del servizio è necessaria perché il nuovo gestore (chiunque esso sia, pubblico o privato non importa) proceda ad un cambio radicale e definitivo di tutto il management (e, a cascata, di tutto il resto), ma soprattutto perché si farebbe ancora in tempo a mantenere in mano pubblica tutto ciò che rimane (cioè, contratto di servizio, programmazione linee, tariffe etc.) e che secondo Tocci rappresenta il meglio, cioè la funzione sociale del trasporto pubblico. Altrimenti – argomenta ancora, non senza ragione, l’ex assessore capitolino ai trasporti – Atac corre verso l’inevitabile fallimento, rischiando di finire preda di qualche monopolista privato o “capitano avventuroso” che poi, di riffe o di raffe, finirà per imporre le sue regole. Che – se ci pensate – è poi il destino vissuto da Alitalia, che ha rimandato ogni volta di fare i conti definitivamente con i suoi problemi e oggi si ritrova ancora più debole, ridotta ai margini e sempre più in difficoltà. Il saggio dice che prevenire è meglio che curare, ma non sempre i saggi consigli riescono ad essere seguiti dalle nostre parti.