“Non possumus”: l’ultima sentenza (la numero 251) emessa dalla Corte Costituzionale ricorda la famosa espressione con cui Pio IX bocciò ogni tentativo di conciliazione tra Stato e Chiesa. Più o meno nello stesso senso si esprime la Corte sul rapporto tra Stato e Regioni: “leale collaborazione” ha da essere e nulla può darsi fuori dalla “leale collaborazione”. La prosa della Corte è martellante e quanto mai esplicita: “è necessario che il legislatore statale rispetti il principio di leale collaborazione e preveda adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni (e degli enti locali), a difesa delle loro competenze”; ancora: “già in precedenti occasioni, la Corte ha ritenuto che il legislatore statale debba vincolare l’attuazione della propria normativa al raggiungimento di un’intesa, basata sulla reiterazione (il corsivo è nostro, NdR) delle trattative al fine del raggiungimento di un esito consensuale” in Conferenza Stato-Regioni o Unificata. La Corte insiste che la sentenza emessa “afferma – in senso evolutivo (il corsivo è sempre nostro, NdR) rispetto alla giurisprudenza precedente – che l’intesa nella Conferenza è un necessario passaggio procedurale anche quando la normativa statale deve essere attuata con decreti legislativi delegati, che il Governo adotta sulla base di quanto stabilito dall’art. 76 Cost. Tali decreti, sottoposti a limiti temporali e qualitativi e condizionati a tutte le indicazioni contenute nella Costituzione e nella legge delega, non possono sottrarsi alla procedura concertativa (idem, NdR), proprio per garantire il pieno rispetto del riparto costituzionale delle competenze.” Anche senza essere giuristi, non sfugge a nessuno la delicatezza dell’intervento “evolutivo” della Corte: il decreto “attuativo” del governo interpreta sotto forma di norme i contenuti di una delega proveniente dal Parlamento, che ne ha stabilito limiti e modalità. In teoria, si tratterebbe di un passaggio addirittura formale, se non fosse noto a tutti che è nei decreti attuativi che si nasconde la vera “polpa” di provvedimenti che vanno a incidere su poteri e forme dell’amministrazione e via dicendo. Non è un caso che l’emanazione preveda tutta una serie di passaggi, tra commissioni parlamentari, Consiglio di Stato e – ovviamente – Conferenza Stato-Regioni e Conferenza Unificata delle autonomie locali. La Corte ora sentenzia che tutto questo percorso è nullo se non c’è “l’intesa” con le Regioni, non essendo sufficiente (la Corte lo sottolinea esplicitamente) il semplice “parere”. Nella sintesi della sentenza finora resa pubblica, la Corte non si preoccupa di stabilire quali siano gli ambiti, e soprattutto le modalità, con cui deve realizzarsi questa “intesa”: logica vorrebbe che essa sia limitata alle materie che “invadono” effettivamente le competenze regionali e dunque – sostanzialmente – che il “parere” delle Regioni sia corredato dall’impegno (non scritto, ma in qualche modo palese) di non aprire conflitti presso la stessa Corte: sembra impossibile, infatti, che l’intesa debba presupporre una ulteriore “concertazione” dei decreti attuativi con la Conferenza Stato-Regioni perché questo presupporrebbe, in qualche maniera, sovrapporre un’ulteriore istanza a un processo che promana direttamente dal Parlamento, inserendo una contraddizione di cui confessiamo non essere capaci di prevedere le conseguenze. Al di là di questi aspetti tecnico-giuridici che possono formare la felicità dei tecnici della materia, rimangono le conseguenze pratiche della pronuncia della Corte, che hanno diretta attinenza – in questo caso specifico – anche con la riforma del trasporto pubblico locale, che – essendo stato fatto rientrare nell’ambito più complessivo della riforma dei servizi pubblici – ha obbedito alla famosa legge del “simul stabunt, simul cadent”. Chi segue le vicende del settore, ricorderà che problemi più o meno analoghi (pur con tutte le differenze specifiche facilmente intuibili) si sono verificati anche in occasione dell’altra sentenza della Corte che dichiarò incostituzionale l’articolo 4 del decreto legge n. 138/211, cancellando di fatto l’intera disciplina di regolamentazione dei servizi pubblici e aprendo la strada a un periodo di confusione e incertezza anche normativa. E’ nota la posisione dell’Asstra, l’associazione delle imprese di trasporto pubblico in Italia, che ha sempre richiesto l’adozione di un provvedimento che raccogliesse in maniera organica tutta la legislazione riguardante il settore, ma ne riconoscesse anche la profonda specificità. Purtroppo, anche in questo caso aver inserito il TPL all’interno del comparto dei servizi pubblici locali ha portato, per così dire, “sfortuna” e determinato un ulteriore intoppo a un processo che – al momento – nessuno o ben pochi possono immaginare che evoluzione avrà. La ministra della Funzione Pubblica Marianna Madia ha già annunciato in un’intervista giornalistica che i due decreti attuativi su dirigenza e servizi pubblici locali, già approvati in Consiglio dei ministri, non sono stati mandati al Quirinale e “non vedranno la luce”. Al di là delle conseguenze che tutto ciò potrà comportare, rimane il problema di fondo che il settore del trasporto pubblico locale ha bisogno di certezze e di un quadro regolatorio stabile non solo per far fronte alle esigenze reclamate dagli utenti e dalle stesse aziende, ma anche per consentire alle stesse aziende di programmare le proprie strategie di sviluppo e – ove possibile e auspicabile – i propri investimenti. Invece, come in un eterno gioco dell’oca, sembra sempre di assistere ad un ritorno alla casella di partenza, costringendo tutti i protagonisti che – forse – farebbe sorridere lo stesso Sisifo.